C’era una volta, quando andavamo alle elementari e la cosa più difficile da fare nella vita era cercare di capire come fare l’analisi grammaticale o decidere cosa mangiare per merenda; una volta quando ancora internet non si sapeva bene cos’era (erano cose da grandi) e per parlare con gli amici il pomeriggio bisognava telefonare a casa, oppure andare direttamente a citofonargli.
C’erano una volta i temi in classe, tanto temuti alle medie ma che per me divennero, per qualche motivo che non ho mai capito, quasi un piacere in quinta superiore. In fondo bastava saper pesare le parole, scegliere quelle più adatte per esprimere un’idea o un sentimento, scriverle sul foglio una dopo l’altra nell’ordine giusto aggiungendo qua e là qualche segno di punteggiatura a mo’ di condimento. Bastava un minimo di ordine mentale ed il resto veniva da sé, mettendo insieme piccoli mattoncini di parole così facili da creare si potevano trattare argomenti di un certo livello con una facilità disarmante.
Oggi abbiamo computer e cellulari, siamo sempre connessi a tutte le reti immaginabili, abbiamo così tanti modi diversi di comunicare che la comunicazione a volte diventa pure eccessiva e sentiamo il bisogno di spegnere tutto. Abbiamo le spunte di WhatsApp che ci dicono se il messaggio è stato inviato, se è stato recapitato e se è stato letto, possiamo sapere quando il nostro interlocutore è stato online l’ultima volta. “Ti sei collegato ma non hai letto il mio messaggio! Hai letto il mio messaggio ma non hai risposto!” Abbiamo i profili di Facebook da controllare dodicimila volte al giorno, i like da contare per vedere quanto siamo belli, per non parlare poi di quella sensazione di sentire il telefono che vibra in tasca anche quando è tutto il giorno che non ci caga nessuno. Abbiamo le emoticon tra cui scegliere perché altrimenti non si capisce se stiamo scherzando o meno.
E questo nuovo modo di comunicare stravolge anche la lingua, il nostro povero italiano, la lingua più bella del mondo. Ch diventa k, le vocali spariscono, gli apostrofi vengono dimenticati chissà dove. I sorrisi lasciano il posto ad un’alternanza compulsiva di h e di a che tutto ricorda tranne che una risata. Punti di domanda usati senza una domanda, domande scritte senza punto di domanda. I due punti: chi sei li ricorda? E il punto e virgola? Puntini di sospensione a profusione per riempire gli spazi vuoti, a volte sostituiti dalle temibili “virgolette di sospensione”,,,,, Libertà che ci prendiamo in nome di una comunicazione veloce ed immediata, che non conosce tempi di attesa e non conosce distanze.
E il punto? Chi l’ha visto il punto? Chi ha deciso che da quando esistono le chat o i cellulari non bisogna più usare il punto alla fine delle frasi? Chiunque l’abbia deciso, dovrebbe essere consapevole che adesso, per colpa sua, con il punto c’è un problema, un immenso problema. Perché se a qualcuno, per sbaglio, scivola un punto alla fine di un messaggio si scatena il panico. Il punto si trasforma in un buco nero che risucchia tutto, cambia ogni significato ma non ci dice in che modo.
E allora calma, dico io, andiamoci piano. Questa comunicazione è bella, è utile, ma è snaturata. La tecnologia è un supplemento, non un sostituto. Non dimentichiamoci di tutto il resto. Non dimentichiamoci di quanto sia più bello ricevere una cartolina che una foto sul cellulare, di quanto sia più bello trovare una busta nella buca delle lettere che una notifica. Non lasciamo che una conversazione importante venga portata avanti chiusi, da soli, in una stanza davanti ad uno schermo. Se dobbiamo litigare, litighiamo mostrando le lacrime che scendono. Se dobbiamo dirci qualcosa di cui ci vergognamo, diciamocelo mostrando l’imbarazzo che accende il nostro viso. Non dimentichiamoci di tutto quello che possono dire gli occhi di una persona che le emoticon non possono dire. Non dimentichiamoci di dedicarci del tempo ogni tanto, di prendere un caffè insieme, di fare una passeggiata, di darci un abbraccio.
Non dimentichiamoci… per favore.
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